Un affermato e noto neurologo, responsabile universitario, che ormai da anni, ha contatti con il mondo dell’osteopatia, ha coniato un simpatico aforisma riferendosi agli osteopati. Li ha definiti, ancor prima di conoscere l’opera di Still, come quelli “fissati per la mobilità”. L’affermazione, pur se fatta in tono allegorico, di fatto racchiude una delle prime essenze per capire cosa sia l’osteopatia.
Approfondiamo questo concetto.
Se pensiamo agli esseri viventi della specie animale vediamo come questi siano caratterizzati da una struttura scheletrica che funge da supporto, una sorta di telaio, di carrozzeria. Negli insetti questa struttura è esterna mentre nei vertebrati, come l’uomo, è interna. Esistono poi vari insiemi di “dispositivi” (organi, muscoli, vasi, nervi, liquidi) che, per poter funzionare correttamente, devono poter scorrere gli uni rispetto agli altri e rispetto alla struttura portante. Questa è la differenza sostanziale rispetto alle forme di vita del mondo vegetale: con il movimento l’organismo deve dotarsi di un’organizzazione della struttura completamente diversa rispetto ad una pianta. A differenza di una pianta, che resiste fino ad un certo punto alla mancanza d’acqua per poi seccare, e quindi morire, l’animale, può giocarsi della carta della migrazione alla ricerca della pozza che possa dissetarlo. E può farlo perché è dotato di una struttura votata alla dinamica rispetto alla struttura pressoché statica del vegetale. La necessità di muoversi, e il come muoversi, implicano tuttavia una sofisticazione (non da poco) della struttura che cresce con il livello evolutivo dei dispositivi che compongono l’organismo.
Per comprendere a fondo questo passaggio, torniamo alla similitudine tanto cara a Still, paragonando il corpo umano ad una macchina. Sappiamo come un’automobile possa perdere quell’efficienza nella lubrificazione dei suoi congegni interni. È anche possibile perdere quell’allineamento perfetto degli elementi di trasmissione del movimento (cinghie, catene eccetera) in quei casi in cui l’auto abbia subito un incidente, oppure se è vecchia e con molti chilometri percorsi. Allo stesso modo un corpo umano rallenta le sue funzioni sia globalmente, per il passare degli anni, sia settorialmente in conseguenza di traumatismi, vizi posturali, cicatrici o esiti di malattie importanti.
Facciamo un esempio pratico. Prendiamo in considerazione la respirazione, che è l’atto più rappresentativo del vivere: il primo pianto appena nasciamo “accende”, fa da starter, al meccanismo polmonare e la vita cessa quando si esala l’ultimo respiro. Nell’ambito della funzione respiratoria potremmo utilizzare come esempio la pleura che è la membrana che riveste i polmoni. Essa è composta da due foglietti, uno esterno (o parietale) e uno interno (o viscerale). Durante la respirazione, la pleura parietale deve scorrere liberamente all’interno della griglia costale e deve scorrere rispetto alla membrana di rivestimento del cuore, il pericardio. I due foglietti pleurici devono inoltre poter scorrere uno sull’altro per permettere l’espansione e la contrazione polmonare.
Immaginiamo ora che questo movimento pleurico appena descritto vada a bloccarsi in un punto qualsiasi del sistema, per un qualsiasi motivo (ad esempio per l’esito di una pleurite). Sarà inevitabile prevedere che quell’organismo, per non trovarsi con una ridotta capacità di ossigenazione del sangue derivante da una riduzione del movimento a stantuffo dei polmoni, tenterà di compensare con un movimento amplificato in un altro punto del sistema che potrebbe essere, ad esempio, l’incremento della respirazione accessoria prodotta dai muscoli del rachide cervicale. Finché un sistema, composto da così tante parti e sottosistemi, riuscirà a compensare delle restrizioni di movimento con ipermovimenti in altre parti si avrà, complessivamente, la salute dell’organismo ma, probabilmente, la zona di compensazione che è sotto stress è la prima indiziata a potenziali sofferenze (soprattutto manifestando il dolore che, vogliamo sottolineare questo concetto, non è della sede in restrizione di movimento).
Nel caso sopraccitato si potrebbero usare altre parole e dire che una pleurite, una volta guarita, lascia molto spesso delle aderenze e che queste potrebbero essere l’elemento che determina un maggior lavoro della muscolatura cervicale, come muscoli accessori alla respirazione. Tutto questo porta ad una cervicalgia generata da una restrizione pleurica. L’osteopata cercherà di far passare il dolore cervicale trattando la pleura in restrizione.
Ora risultano chiare le differenze di ragionamento rispetto alla medicina tradizionale, e tendenzialmente specialistica, che è allopatica ossia tesa all’eliminazione del sintomo. Nella visione osteopatica, l’importante è cercare quella struttura che per prima ha perso la libertà di movimento originando una catena di scompensi e relativi tentativi di compensazione. Chiaramente una volta individuata la struttura “primaria” sarà proprio questa l’oggetto delle tecniche principali per liberarla dalle restrizioni. Senza dimenticare che per l’osteopatia la qualità del movimento, ha pari importanza rispetto alla sua quantità (come già spiegato in precedenti articoli). Per capirci meglio, ritorniamo all’esempio di poc’anzi sulla cervicalgia. Il trattamento medico tradizionale davanti ad un dolore cervicale è, classicamente, l’antinfiammatorio ad azione locale (cerotto, pomata o iniezioni), oppure l’azione decontratturante sulla muscolatura (farmaci e pomate miorilassanti o massaggi locali). Se la cervicalgia fosse generata dall’esito di una pleurite, come nell’esempio, l’osteopata tratterà comunque la cervicale ma unitamente a tecniche per la liberazione del movimento pleurico.